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“Storia di N.”

Mi hanno detto che non ero portata per questo mestiere e che mi ero laureata solo perché facevo pena”

Da circa un anno, N. sta facendo il lavoro dei suoi sogni, per cui ha studiato e si è laureata qui in

Italia, ma arrivare a questo risultato è stato molto più difficile di quanto si aspettasse.

È arrivata dal Marocco quando aveva tredici anni ed è stata inserita in terza media. Il primo anno è

stato traumatico: i compagni la prendevano in giro perché portava il velo e non conosceva bene

l’italiano. Le dicevano “Fai schifo” e non volevano che li toccasse. Un giorno, parlando con un suo

un altro bambino della sua classe, le viene spontaneo dirgli “Somigli a mio fratello”. Lui la spinge

via: «Tu non sei mia sorella, fai schifo. Tu sei africana, io sono europeo». Ancora oggi, passando

davanti a quella scuola, il ricordo degli atti di bullismo subiti la fa stare male.

Per fortuna alle superiori la situazione migliora grazie a una compagna marocchina che la difende, e

all’università le cose vanno ancora meglio: «Sono stati gli anni più belli della mia vita», racconta.

Il mondo del lavoro, però, non è altrettanto accogliente. N. si vede rifiutare un posto perché porta il

velo: «Mi hanno detto che non sarebbe stata una bella immagine per l’azienda».

Anche quando comincia il suo primo tirocinio dopo la laurea viene trattata diversamente dagli altri:

viene messa in un ufficio isolato, lontano dai colleghi, senza nessuno a cui chiedere aiuto. Quando

prova a chiedere supporto su alcune pratiche lavorative, viene rimproverata dal capo. Anche i

colleghi non perdono occasione per farla sentire a disagio: uno di loro le dice che non è portata per

quel lavoro e che si è laureata soltanto perché faceva pena.

«Per me è stata una coltellata, mi sono sentita disprezzata», ricorda.

Anche il fatto di essere donna diventa motivo di discriminazione: «L’altro tirocinante, che aveva la

mia stessa laurea, veniva chiamato dottore, mentre quando parlavano di me dicevano signora».

N. trova un nuovo posto di lavoro, dove le cose sembrano andare meglio, ma una collega, invidiosa

dei suoi buoni risultati, comincia a metterla in cattiva luce inserendo degli errori banali nei suoi

documenti. Cominciano anche qui frecciatine e insinuazioni. In quel periodo N. si sta preparando

per sostenere l’esame di stato e capi e colleghi le dicono continuamente che non riuscirà a passarlo.

Le consigliano di cambiare strada e di fare l’OSS: «Non c’è niente di male nel lavoro di OSS, ma

non era quello che volevo, loro però pensavano che una straniera non potesse fare nient’altro».

Il primo tentativo con l’esame di stato non va a buon fine e N. è completamente demoralizzata: le

sue esperienze l’hanno portata a odiare il lavoro in Italia e le hanno fatto perdere fiducia nelle sue

capacità. Anche il confronto con i suoi coetanei la fa sentire inadeguata: «Vedevo che gli altri

andavano avanti e io invece non ci riuscivo, mi sentivo sola».

Solo grazie al supporto di suo padre, di sua sorella e della sua famiglia riesce a non mollare: cerca

un lavoro all’estero e trova un posto in una grande azienda, dove il suo titolo di studio italiano viene

riconosciuto e apprezzato. Si trasferisce e supera brillantemente il periodo di prova, dopo il quale

ottiene subito un contratto a tempo indeterminato: «Mi facevano i complimenti, non ho mai ricevuto

i commenti e gli insulti che avevo subito in Italia».

Anche se le cose procedono per il meglio, N. ha ancora un conto in sospeso con l’Italia: l’esame di

stato. Decide di licenziarsi, anche se con dispiacere, e torna per sostenere la prova. Questa volta

riesce a superarlo: «È stata una soddisfazione vedere il mio nome vicino a quello di chi diceva che

non ce l’avrei fatta».

Per quanto l’esperienza all’estero sia stata positiva, al momento non vorrebbe ripartire: «L’Italia è

sempre l’Italia, quando ero lontana mi mancava. Qui di vive bene, le persone non sono tutte cattive

 

e penso che con le nuove generazioni stia cambiando la mentalità: per esempio quando io ho

iniziato l’università ero l’unica straniera del mio corso, invece ora ce ne sono molti di più».