“A mio figlio è stata rifiutata una visita medica: ci hanno detto che gli stranieri non pagano e non sono riconoscenti”
L.
L. venuta in Italia dal Perù perché sua figlia, malata di leucemia, aveva bisogno di cure. I primi
mesi sono stati durissimi: non parlava italiano e conosceva solo la dottoressa di sua figlia e la suora
che l’aveva aiutata a venire qui.
La prima cosa da fare era trovare una casa: anche gli altri due suoi figli dovevano venire in Italia,
per stare tutti insieme e anche per fare i test di compatibilità e sapere se potevano donare il midollo
alla sorella. Per trovare casa, però, serviva un lavoro. Grazie a una raccomandazione della
dottoressa, L. comincia una settimana di prova come badante a casa di una signora torinese. Dopo
otto giorni, la donna è pronta ad assumerla, ma, quando L. racconta della malattia della figlia, le
cose cambiano: «Mi ha detto che ero una bugiarda, che avrei dovuto parlargliene prima. Mi ha
spinta fuori di casa mentre mi stavo ancora mettendo la giacca».
L. non aveva detto nulla perché non sapeva ancora se sarebbe stata assunta e non voleva raccontare
qualcosa di così personale e delicato prima di sapere se avrebbe avuto il lavoro, ovviamente non era
sua intenzione mentire. Da quel momento, però, non ha più parlato con nessuno della malattia di
sua figlia: «Era come se le persone avessero paura di essere contagiate».
Grazie all’aiuto della suora, L. riesce a trovare lavoro presso un’altra signora, che la aiuta anche ad
affittare una casa garantendo per lei. Il figlio e la figlia rimasti in Perù la raggiungono, e il maschio
risulta compatibile per la donazione di midollo. Deve però fare una serie di visite prima
dell’operazione, così L. lo porta in un centro medico per stranieri che non hanno ancora i
documenti. Qui, però, l’infermiera che li accoglie rifiuta la visita: dice che gli stranieri approfittano
dell’Italia per farsi curare, non hanno soldi per pagare e non sono riconoscenti. L. e suo figlio
vengono cacciati. Solo grazie all’interessamento della dottoressa, che coinvolge anche dei
giornalisti, riescono a ottenere le prestazioni di cui hanno bisogno.
Anche per l’altra figlia di L., l’inserimento in Italia non è semplice, la ragazza, infatti, è vittima di
gravi episodi di bullismo. Proprio per questo, su consiglio di una terapeuta, tutta la famiglia cambia
città e viene ad abitare a Carmagnola. Qui l’accoglienza è ben diversa: L. ricorda che i vicini le
hanno subito dato il benvenuto e hanno offerto cibo e acqua a lei e ai suoi figli, in una caldissima
giornata di agosto.
Purtroppo, nonostante il trapianto di midollo, la figlia di L. è morta nel 2011, lasciando un grande
vuoto. Gli altri figli, invece, ora sono sposati e hanno trovato lavoro.
Il periodo della pandemia è stato molto difficile per L., era spaventata e aveva paura di uscire di
casa, ha attraversato un lungo periodo di depressione da cui è uscita grazie all’aiuto dello sportello
psicologico di Casa Frisco. Ora sta meglio, ma ancora oggi, dopo l’esperienza del suo primo lavoro
a Torino, ha difficoltà ad aprirsi con gli altri e a raccontare di sua figlia: «Ho ancora paura che
parlare della malattia allontani le persone» spiega.
«A volte mi dico che sono stupida perché non parlo, mi apro solo quando conosco le persone e mi
fido. In Perù ero diversa, ero una commerciante e parlavo con tutti. Vorrei aiutare gli altri e non
stare più da sola».
Nonostante le grandi difficoltà che ha dovuto affrontare, L. è riuscita a trovare un po’ di serenità,
anche grazie al supporto psicologico: «Mi dico che se gli altri possono superare i momenti difficili
posso farlo anche io, perché sono una mamma».